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Davide Fabbri. “La Salamandra” degli anni Venti

di Marina Pescatori

Ceramista e imprenditore, Davide Fabbri testimonia con le sue opere il cambio di gusto negli anni Venti.

Giovane ceramista nato a Faenza (1891), Davide Fabbri studia nella città natale presso la Scuola di Disegno e Plastica “Tommaso Minardi”. Dopo il diploma la vocazione di scultore lo porta a fare esperienza presso le botteghe ceramiche locali e, finita la guerra, a trasferirsi a Roma per frequentare i corsi di arte applicata del Museo Artistico e Industriale.
Studiando nella capitale cresce professionalmente nell’ambito della scuola ceramica romana. Entra in contatto con Duilio Cambellotti, personaggio chiave della cultura artistica vicina alle nuove tendenze decorative, e fa amicizia con alcuni  artisti del suo entourage tra i quali Alfredo Biagini e Achille Luciano Mauzan che lavoreranno con lui nella bottega che fonda insieme a Renzo Cellini nel marzo del 1921.
Con “La Salamandra. Fabbrica di maioliche artistiche” inizia la stagione imprenditoriale di Davide Fabbri a capo di un’azienda che continuerà a produrre fino agli anni Cinquanta ma senza di lui; una stagione da direttore artistico breve ma intensa (1921-1930) che, principiata a Roma, presto si sposterà a Perugia.

 

Al suo secondo anno di produzione romana “La Salamandra” già si fa notare, tanto che due imprenditori perugini: Francesco Verdesi e Biagio Biagiotti – che aveva rilevato la “Società Maioliche Deruta” nel ’20 – si fanno avanti come soci alla pari. Dopo di loro altri notabili della città umbra decidono di investire nella giovane ma promettente fornace, si tratta di: Bruno e Giovanni Buitoni, noti imprenditori di cui Fabbri è già fornitore di piccole ceramiche legate alla produzione dolciaria, Giuseppe Baduel, già vicepresidente delle “Maioliche Deruta”, e dell’avvocato Pubblio Angeloni. Questi nuovi ingressi “cambieranno i connotati” alla “Salamandra” che nel marzo del 1923 si trasferisce a Perugia nel quartiere di Elce, presso l’ex Monastero di San Francesco delle Donne dove ancor oggi resta visibile la ciminiera.

 

Nel nuovo assetto societario, a Biagio Biagiotti viene affidata la direzione generale mentre quella tecnica e artistica resta a Davide Fabbri che mantiene della proprietà solo il 5%, una quota davvero piccola che peserà poco sulle scelte aziendali e molto sulla sua decisione di allentare il suo contributo in fabbrica.
Nel 1930, già insegnante dal ’29 presso la sezione ceramica dell’Istituto d’arte “Bernardino di Betto” di Perugia, l’artista decide di lasciare definitivamente “La Salamandra”. Negli anni successivi, come professionista autonomo, realizza esemplari unici, dipinti su ceramica secondo la tradizione faentina ed importanti sculture in maiolica e terracotta. Nel 1941, trasferitosi a Napoli – dove morirà nel 1960 – continua l’insegnamento presso la sezione ceramica dell’Istituto d’Arte Filippo Palizzi.

 

Uscito di scena Davide Fabbri, entra come direttore artistico il ceramista napoletano Gennaro Strino già collaboratore della “Maioliche Deruta”. Ancora per due decenni “La Salamandra” godrà dell’apporto creativo di noti artisti ed esperti del settore non solo umbri. Contribuiranno al suo successo: Zulimo Aretini, Emma Bonazzi, Enrico Ciuti, Ezio Cocchioni, Marcello Fantoni, Ruffo Giuntini, Aldo Pascucci, Alberto Stolz e Nino Strada. Anche il ceramista Settimio Rometti, ceduta la “S.A.C.R.U.”, manifattura ceramica di famiglia a Umbertide, lavorerà per un breve periodo alla “Salamandra” che rimarrà attiva fino al 1955.

 

Dal Liberty al Déco. Cambio di gusto e produzione in scala

Dopo il successo della laboriosa sinuosità Liberty, già nel primissimo Novecento una nuova idea plastica prende vita, ispirata dalle sperimentazioni artistiche delle avanguardie europee; un’idea che dà spazio alle forme geometriche in ogni campo e che si fa largo nel corso dei primi due decenni consacrando il suo credo col nome che le verrà attribuito nel 1925: Art Déco.
In tutte le Arti applicate, accanto alle tipologie classiche e della tradizione, le grandi fabbriche europee e le maggiori italiane iniziano a proporre oggetti e arredi secondo uno stile più lineare, meno elaborato e riproducibile in grandi quantità grazie alle nuove tecnologie per foggiare e colorare. La semplificazione del processo produttivo che cammina in parallelo con il cambio di gusto, permetterà a molte imprese non solo di stare al passo con la moda del momento ma anche di rimanere salde in un mercato che si allarga al ceto borghese desideroso di cose ben fatte ma non troppo costose e che detta legge mettendo a confronto qualità e prezzo di aziende ormai in competizione tra loro a livello europeo.
In questa innovativa realtà globalizzata difficoltosa si presenta la sopravvivenza delle realtà artigiane medio-piccole, talvolta a conduzione familiare, progettualmente e produttivamente legate al vecchio corso.

 

Fornaci italiane in crisi e dibattito sullo svecchiamento

Vivo e fiorente nei secoli passati, anche il settore del medio e piccolo artigianato ceramico presenta segni di stagnazione in tutta la Penisola. Già da fine Ottocento, tranne le poche fornaci rinomate a livello internazionale, una miriade di fabbrichette di respiro locale e regionale soffre a causa dello stile ripetitivo dei manufatti e del lento processo lavorativo che non consente la realizzazione dei numeri necessari per un’ampia diffusione.
Negli ambienti artistici, intellettuali e governativi se ne discute in cerca di soluzione. La necessità di tenere in vita piccole realtà intorno alle quali ruota il benessere economico del luogo, il desiderio di conservare una tradizione secolare spesso simbolo del paese stesso, fa ritenere opportuno un cambio di rotta che diventa impellente nel primo dopoguerra quando nelle preferenze degli italiani si fanno largo i prodotti delle manifatture tedesche, austriache, francesi…
Alcune voci eminenti suggeriscono di dare maggiore identità italica ai prodotti: riprendere il legame decorativo con la tradizione aulica quattro-cinquecentesca e/o accentuare il carattere rustico-popolare che determina l’appartenenza a un certo territorio; altre voci più inclini a guardare al futuro, invitano viceversa gli artisti/artigiani a lasciarsi alle spalle il passato, a rinnovare il repertorio plastico cogliendo le suggestioni che giungono d’oltralpe.
In questo contesto di incertezze, rilevanza artistica e personalità incisiva riveste l’indirizzo artistico di Davide Fabbri negli anni in cui dirige “La Salamandra”.

 

Il contributo di Davide Fabbri al cambiamento

Gli anni Venti della “Salamandra” vedono il direttore artistico Davide Fabbri impegnato nel proporre complementi d’arredo secondo la nuova teoria che vede le Arti applicate riscattarsi dal ruolo di Arti minori, e lo mostrano deciso a contribuire allo svecchiamento dei modelli decorativi umbri ancora troppo legati al gusto neo rinascimentale ottocentesco e agli stilemi della tradizione locale popolaresca.
Non di meno però, così come altri ceramisti e direttori artistici del periodo, Fabbri non se la sente di abbandonare del tutto la via della tradizione per intraprendere quella del cambiamento, e sceglie di percorrerle entrambe. Infatti, mentre alcune produzioni “La Salamandra” del primo decennio colgono a pieno lo spirito innovativo del momento (la piccola statuaria déco), altre conservano qualcosa di antico mixato al moderno (la stoviglieria e gli altri complementi d’arredo), portando avanti l’idea che possa ritenersi attuale anche una sagoma tradizionale che presenti un decoro aggiornato, e viceversa.

 

Intercettare i segnali del contemporaneo rimanendo con un piede nel passato, sembra essere la ricetta di Davide Fabbri per uscire dall’impasse. Documenta il discreto successo della strategia, la notevole quantità di artefatti che trovano mercato, un gradevolissimo insieme di oggetti di differente utilizzo pensati per una borghesia alla ricerca di una moderata modernità arredativa.
I primi modelli della “Salamandra”, e soprattutto alcune tipologie di scatole e vasi, presentano ancora evidente la comunanza stilistica con l’esperienza fatta presso le fornaci romane, e conservano l’impronta cambellottiana nella scelta del segno espressivo e dei colori. Ma nel corso degli anni perugini un guizzo di autonoma creatività si evidenzia grazie all’utilizzo di smalti brillanti che formano campiture monocromatiche, colature, impasti sfumati e chiazze multicolori che rendono moderni servizi da tavola e da toletta.
Tra l’oggettistica d’uso, particolarmente amabili risultano le scatole a “damina del Settecento”, vere e proprie sculturine contenitore che, oltre al pregevole ornato, trovano il loro fascino nella postura accattivante del corpo e nell’atteggiamento malizioso del volto.

 

Evidenzia il riuscito tentativo di percorrere nuove strade, la piccola statuaria di taglio moderno, una tipologia già appannaggio delle maggiori manifatture ceramiche europee e ben nota al pubblico italiano visitatore delle Esposizioni di Arti decorative e applicate. Queste deliziose figure dalla grandezza contenuta, sono un concentrato di raffinatezza ed eleganza. Alcune si mostrano originali per le geometrie déco addolcite negli spigoli, altre sembrano in movimento per il senso dinamico impresso alla forma, altre ancora si fanno notare per la seduzione che esercita il sapiente gioco di cromie a comparti. E non basta. Nella loro espressività c’è tutta la maestria di un Davide Fabbri che con poco riesce a cogliere tanto: circostanze, stati d’animo, desideri… E questo anche quando le sagome non sono del tutto definite ma lasciate un po’ intendere, proprio come accade nell’opera dei grandi scultori espressionisti a lui contemporanei.

 


I manufatti presentati nel servizio provengono dalla raccolta di Giuseppe Alise, noto collezionista di Bastia Umbra appassionato di ceramica italiana Otto-Novecento. Lo vediamo in questa foto mostrare un “fuori misura” di Davide Fabbri, un’alzata in maiolica di 63 centimetri dai toni sfumati e chiazze di colore, modello creato nel 1929.

 

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